Casablanca n. 39

09 – Il nostro 9 maggio Umberto Santino, Anna Puglisi 11 - Reportage dal Nepal Eleonora Corace 13 - Fulvio Vassallo Paleologo San Giusto è solo una nave militare 16 – Lampedusa, Ellis Island dell’Italia? No! Grazie Eleonora Corace 19 Adriana Laudani Pio il Pacifista 22 Profumo dolce amaro di gelsomino Natya Migliori 24 Diego e Mitraglia: Partigiani Siciliani Giuliana Buzzone 26 Una ordinaria storia di Ebrei Simona Secci 29– Davide Mattiello – Priorità assoluta: i diritti della gente 31 – Franca Fortunato Le cifre oscure e le ignote minacce 35 – Simona Distefano Non si paga un bene comune 38 – Amalia Zampaglione Sebben che siamo donne. Storie di Rivoluzionarie 40 – La trasparenza della chiesa Salvo Ognibene 41 –Rino Giacalone “Colpevole” 44 – Franca Imbergamo Le donne del digiuno contro la mafia/Francesco Francaviglia 47 –I ragazzi di “Dacci oggi il tuo voto quotidiano” Montalbano Elicona 49 – Tamuna Accursio Soldano 50 Antonio Mazzeo Droni 54 Ass. Antimafie Rita Atria Giovanni Lo Porto … Vittima “collaterale” 56 Goffredo D’Antona La strage del porto di Genova… 59 Letture e Memoria di Frontiera 58 – Brevi dalle Lotte di Frontiera: NO MUOS 59 Eventi: Immaginarte – Il sangue limpido del mare 62 – Eventi: L’Abruzzo contro Ombrina,Elsa2 e Rospo Mare 64 – Luoghi di Frontiera – Casa della Resistenza Egle Palazzolo Copertina Immagini di Mauro Biani- donne NO MUOS (Fabio D’Alessandro)

Editoriale di Graziella Proto

Africa addio, seguo il mio sogno

Era stato previsto un numero diverso, ma gli accadimenti e le difficoltà ci hanno fatto “dirottare”. Ce ne rammarichiamo perché avremmo voluto fare di più. Essere più presenti. Forse, anche più incisivi.
Tante le scadenze del periodo. Gli anniversari. Le celebrazioni. Per esempio, mentre scrivo, è in corso il corteo da Terrasini a Cinisi per ricordare il 37° anniversario dell’uccisione di Peppino Impastato. Per ricordare, ma anche per ribadire il suo pensiero: “Devi sempre dire no alla mafia, ricordatelo”. Non possiamo occuparci di tutto. Non ce la facciamo. Non è possibile. Ci accontenteremo di questo numero un po’ strampalato e poco ipotizzato.

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Il mese scorso si è consumato un terribile naufragio di oltre 800 persone – sì, persone – perché a furia di chiamarli migranti o clandestini ci si dimentica che sono persone.
Nel canale di Sicilia a 100 chilometri dalla Libia e 200 da Lampedusa un barcone carico di 800 persone disperate, si è ribaltato. Secondo un sopravvissuto originariamente il numero degli imbarcati era più alto – circa 950, molti erano ammassati nella stiva. La notte fra il 18 e il 19 aprile, la tragedia. I migranti avevano già chiesto soccorso, sono morti mentre il mercantile King Jacobs che aveva ricevuto l’S.O.S. cercava di soccorrerli. I superstiti arrivano al Porto di Catania. Tv e testate giornalistiche di ogni parte del mondo. Un caos. Il sindaco che fa dichiarazioni di buon senso. I volontari che soccorrono. I rappresentanti istituzionali che raccolgono notizie.
Vado al Porto di Catania. La compassione mi travolge ma… non si può scoppiare a piangere nel momento in cui si dovrebbe invece osservare, registrare, documentare.
In un angolo del bar, mesto e spoglio del porto di Catania alcuni giornalisti fra i quali Ruotolo, seduti a un tavolinetto con i loro bei computer portatili scrivevano, annotavano, oppure comunicavano via telefono. Io con quel fastidiosissimo groppo alla gola avevo difficoltà anche a respirare. Ciò che vedevo non mi piaceva. Avrei voluto non vederlo quel dramma umano. Una tragedia che si ripete, che ci commuove, in quel momento. Per molti, “… un palcoscenico dove mettere in scena un copione che si ripete: emergenze, piagnistei e tragedie, che hanno come fine ultimo il profitto sulla pelle dei migranti …”, la militarizzazione del territorio e del Mediterraneo. Poi come per incanto ci si dimentica.
Una lunga fila di ragazzi. Volti spaesati. Impauriti. Perplessi. Si guardano intorno, scambiano qualche parola con chi gli spiega qualcosa, gli fa provare un paio di scarpe, gli mette addosso un giubbotto.
Loro non hanno nulla. La famosa valigia di cartone per questi migranti che si affidano al mare e alle sue bizzarrie, sarebbe troppo.
Una faccia esitante, gli occhi spalancati, ma uno sguardo indecifrabile, “ciao” dico, sorridendo e cercando di far capire che sono un’amica (amica, che parolona…) a quel ragazzo giovanissimo che non sapeva cosa fare, come mettersi, come stare dentro quella fila. Imbarazzato. “Ciao” dico, e aggiungo il gesto del saluto con la mano per farmi capire, mentre quel dannato groppo sale e scende dentro la mia gola. Al gesto della mano il ragazzo si scioglie, sorride, la sua faccia nera s’illumina perché i suoi denti bianchissimi gli creano una luce attorno. Col sorriso e con la mano ricambia il mio saluto. Un minimo accenno